Long Covid, una variante genetica aumenta il rischio del 60%

6, giugno 2025 – Alcune persone sono più predisposte di altre a sviluppare il long Covid, e la ragione potrebbe trovarsi nel Dna. Un ampio studio genetico internazionale, pubblicato oggi sulla rivista Nature Genetics, ha infatti identificato nuove varianti genetiche associate a un rischio più elevato di sviluppare la sindrome post-Covid, caratterizzata da sintomi come stanchezza cronica, dolori muscolari, difficoltà respiratorie e “nebbia” mentale. In particolare una è associata al rischio aumentato del 60% di svilupparlo. Circa il 10-20% delle persone infette da Covid-19 sviluppa sintomi a lungo termine. Finora le cause alla base della condizione erano in gran parte sconosciute. Per far luce, 24 centri di ricerca e ospedali in 16 Paesi hanno unito le forze. Guidata dall’Institute for Molecular Medicine Finland e dal Karolinska Institutet, la ricerca ha visto un ruolo importante dell’Italia grazie al contributo dell’Università degli Studi di Milano, dell’Università di Siena e dell’Istituto di tecnologie biomediche del Cnr, con i dati della Fondazione Covid-19 Genomic Study e Gen-Covid. Lo studio di associazione sull’intero genoma ha analizzato i dati genetici di 6.450 pazienti con long Covid e oltre un milione di individui senza questa sintomatologia. In questo modo ha individuato un locus genetico, ovvero uno specifico punto nel genoma, sul cromosoma 6, in prossimità del gene FoxP4, già noto in letteratura per il suo ruolo nelle infezioni respiratorie e nella risposta immunitaria. Questo locus risulta essere associato alla predisposizione a sviluppare long Covid, con un rischio di svilupparne i sintomi aumentato di quasi il 60% nei soggetti che hanno nel proprio Dna la variante genetica identificata nello studio. Il risultato è stato validato su altri 9.500 pazienti e oltre 700.000 controlli. “La ricerca – affermano gli autori – fornisce un’evidenza concreta di come la genetica individuale possa influenzare la suscettibilità al long Covid. Questo permetterà di identificare le persone a rischio e migliorare la pratica clinica nella cura”.  
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