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In genere si ricorre alla chirurgia se l’ingrossamento è rilevante, i sintomi non sono più controllati a sufficienza dai farmaci e hanno un impatto negativo sulla qualità della vita del paziente o se la malattia progredisce. Diverse le opzioni oggi a disposizione
L’«ingrossamento della prostata», ovvero l’ipertrofia prostatica benigna o adenoma, interessa praticamente tutti i maschi a partire dai 40 anni circa, quando la parte più interna della ghiandola inizia ad aumentare di volume. Viene diagnosticata a oltre 6 milioni di italiani ogni anno: si calcola che colpisca il 5-10% degli uomini prima dei 40 anni, la metà dei 50enni e fino all’80% dei maschi dopo i 70. In pratica bisogna pensare alla ghiandola prostatica come a una pesca, con al suo interno un nocciolo (l’adenoma, appunto) attraversato dall’uretra (il canale che parte dalla della vescica, attraversa il pene e serve principalmente all’espulsione dell’urina), che progressivamente cresce: più aumenta il volume del nocciolo, meno riesce a passare l’urina e questo provoca i disturbi che diventano via via più fastidiosi e gravi. Le terapie oggi sono personalizzate: in base al tipo, al grado di malattia e ai sintomi si valuta insieme al paziente la cura più indicata.
Quando serve la chirurgia
I farmaci a disposizione sono diversi, possono essere prescritti anche in combinazione fra loro, non hanno effetti collaterali pesanti, e possono essere assunti per periodi anche molto lunghi. «L’ingrossamento è progressivo, cresce col passare del tempo e, se non viene controllato con i medicinali o con una delle varie operazioni possibili, la situazione peggiora fino ad arrivare (in estremo) a un blocco urinario – spiega Giario Conti, segretario nazionale della Società italiana di urologia oncologica (SIUrO) -. In genere si ricorre alla chirurgia quando l’ingrossamento è “importante”, i sintomi non sono più sufficientemente controllati dalla terapia farmacologica e hanno un impatto negativo sulla qualità della vita del paziente. Oppure quando si verifichino segni di progressione della malattia: ad esempio la formazione di calcoli o diverticoli vescicali, ritenzione di urina e infezioni urinarie, che si fanno man mano ricorrenti e sempre più serie».
Tante tecniche per lo stesso obiettivo
In ambito chirurgico esistono varie opzioni e, per stabilire come procedere, molto dipende dalla grandezza dell’adenoma, dalla gravità dei sintomi, dalle condizioni cliniche e da preferenze e aspettative del paziente. Nella scelta del tipo di intervento ci sono, poi, altri criteri importanti da valutare: primo fra tutti il rischio di sanguinamento, che spesso è importante e che può essere un problema soprattutto nei pazienti più anziani e in chi assume altre terapie (ad esempio gli anticoagulanti per il cuore) che non possono essere sospese; secondo, l’eiaculazione retrograda (il liquido seminale anziché uscire dall’uretra risale indietro nella vescica urinaria per poi essere espulso con le urine) che è una conseguenza permanente della maggior parte delle operazioni; terzo, la dotazione tecnologica del singolo centro e l’esperienza dell’urologo a cui ci si affida.
«Le strategie di esecuzione sono diverse, ma l’obiettivo dell’intervento è sempre lo stesso – chiarisce Rodolfo Hurle, specialista urologo all’Istituto Clinico Humanitas di Milano -: creare lo spazio per agevolare l’uscita dell’urina. Quanto maggiore è la dimensione del “nocciolo”, tanto più “incisivo” dev’essere il modo di procedere. In ogni caso si procede per via trans-uretrale (quindi passando attraverso l’uretra) senza “tagli esterni”».
Pazienti giovani
Ai pazienti più giovani con una ghiandola piccola si può proporre una TUIP, ovvero un’incisione trans uretrale della prostata, che consiste soltanto in un’incisione del tessuto per ridurre l’ostruzione: «E’ un intervento veloce, dura circa 15 minuti, in genere non risolve definitivamente il problema (dopo qualche anno bisogna re-intervenire), ma consente in una buona percentuale di casi di conservare la normale eiaculazione – dice Conti -. Il tessuto ipertrofico non viene asportato, soltanto inciso: questo significa che non si può poi fare un esame istologico e accertare l’eventuale presenza di un tumore».
TURP, l’intervento standard
La biopsia si fa sempre, invece, sui tessuti asportati con la resezione transuretrale della prostata (TURP): è l’intervento standard, il più praticato, per prostate di dimensioni medio-grandi, che sono la maggioranza di quelle operate. «Consente di asportare l’adenoma con una sorta di bisturi elettrico – prosegue Conti -: è un po’ come scavare una galleria, per consentire una minzione regolare. Ed è una soluzione definitiva che comporta eiaculazione retrograda, senza incidere sulla potenza sessuale o sulla continenza, salvo situazioni precarie preesistenti».
La TURP dura in media poco più di un’ora. In genere il ricovero è di 2-5 giorni, ma dopo un paio di solito è possibile togliere il catetere (che si mette per permettere un lavaggio continuo della vescica) e se il paziente riprende a urinare agevolmente può essere dimesso. Nel periodo successivo, che può durare anche qualche settimana, possono manifestarsi sintomi minzionali come bruciore, frequenza aumentata, urgenza, che in genere vanno progressivamente riducendosi fino a scomparire del tutto.
I laser
Un iter simile è previsto per tutti i laser, di cui esistono diversi tipi, come Tullio, Green light e Olmio: utilizzano la luce a energie molto elevate per ridurre l’adenoma e consentono d’effettuare un’enucleazione (ovvero un’asportazione del “nocciolo”, su cui poi si può fare biopsia) o una vaporizzazione della ghiandola (il “nocciolo” viene distrutto, quindi non si può poi analizzare). «I laser permettono di trattare con successo anche prostate voluminose, garantendo un’ottima guarigione della zona trattata, con un minore rischio di sanguinamento rispetto alla TURP, senza avere un aumento del tempo operatorio – spiega Hurle -. Solitamente sia TURP che laser sono ben tollerati, con complicanze post-operatorie minime».
Le nuove cure mininvasive
Sono poi arrivate negli ultimi anni diverse nuove terapie mininvasive, riservate sempre ad adenomi di dimensioni ridotte (piccole o medie), disponibili in diversi centri italiani tramite il Sistema sanitario nazionale. «Possono essere eseguite in regime ambulatoriale o in day hospital, quindi sono più “leggere da tollerare” e offrono un’opzione per pazienti anziani, con altre patologie in atto o con trattamenti farmacologici limitanti (antiaggreganti e anticoagulanti per esempio) – sottolinea Hurle -. Sono però interessanti anche per gli uomini più giovani perché migliorano i sintomi evitando l’eiaculazione retrograda, ma hanno una durata limitata nel tempo».
Le terapie mininvasive introdotte più di recente includono gli stent intraprostatici temporanei (che tramite forze elastiche incidono il tessuto e risolvono l’ostruzione prostatica). Oppure i dispositivi permanenti (Urolift) che, come fossero piccoli tiranti ancorati all’esterno della prostata, comprimono l’adenoma e dilatano l’uretra, migliorando così il flusso dell’urina. E ancora: il vapore acqueo ad alta temperatura, iniettato all’interno della ghiandola tramite uno speciale manipolo endoscopico (Rezum) che drena una parte del tessuto ostruito, liberando parzialmente il canale uretrale per la fuoriuscita dell’urina. Oppure l’energia di un laser sprigionata all’interno attraverso fibre ottiche introdotte per via percutanea, che porta il tessuto dell’adenoma a necrotizzarsi, determinando quindi una riduzione del volume prostatico con conseguente disostruzione (SoracteLite).
Sintomi ed esami la diagnosi
Quando compaiono i primi sintomi, per lo più dai 50 anni in su, gli uomini generalmente li ignorano, anche per anni, ma la situazione non migliora e i disturbi si fanno sempre più «fastidiosi»: peggioramento del getto urinario, sensazione d’incompleto svuotamento vescicale, difficoltà a iniziare la minzione, urgenza, frequenza, pollachiuria notturna (elevata frequenza di piccole quantità di urina), fino a ritenzione urinaria, insufficienza renale e infezioni urinarie ricorrenti. Per avere una diagnosi basta una visita con lo specialista che prescrive gli esami di primo livello: ecografia, analisi del sangue e delle urine (per verificare segni di infezione o sangue microscopico nelle urine), flussometria (procedura semplice e non invasiva che misura l’andamento del flusso di urina durante la minzione, dando informazioni sull’eventuale presenza e gravità dell’ostruzione determinata dalla prostata sull’uretra).